domenica, Aprile 28

…ma Trump sa solo litigare?

Speravo che dopo l’ incessante produzione di ordini esecutivi, che stano ridisegnando il panorama giuridico americano e scuotono gli equilibri mondiali, Trump il settimo giorno si riposasse. Ed invece, l’istinto distruttivo della pannocchia impazzita ha vissuto un crescendo rossiniano di sTrumpalate decisioni, che hanno generato il caos in tutti gli Stati Uniti e l’ostilità in tutte le principali democrazie del mondo.
Non sazio per la bulimia normativa e dialettica prodotta in tutta la sua prima settimana, che ha generato la rottura con il Messico, l’avvio del protezionismo economico e la sprezzante ostilità nei confronti dei paesi europei, alleati storici, e della stessa NATO, sabato ha raggiunto l’apoteosi con un ordine esecutivo che, basandosi su una legge del ’52, abrogata nel ’65 (qualcuno gli faccia un po’ di ripetizioni di diritto e di storia, per pietà), ha bloccato l’ingresso negli USA di tutti i rifugiati per 4 mesi e per tre mesi di tutti coloro che provengono per qualsiasi motivo da ben sette paesi islamici, da lui considerati a rischio terrorismo: Siria, Libia, Iraq, Iran, Somalia, Sudan e Yemen. Il decreto colpisce “a tappeto”. Non solo chi chiede di entrare, ma anche chi è già in viaggio e chi ha la famosa “carta verde”, cioè il permesso di residenza perpetuo negli USA.
Con questo provvedimento viene rasa al suolo la storica tradizione di accoglienza degli USA, uno stato nato dall’immigrazione, che prospera grazie a milioni di lavoratori immigrati o discendenti di immigrati. Ha fatto molto scalpore il comunicato di Tim Cook, presidente di Apple, che ha immediatamente contestato il provvedimento, affermando che “Apple non esisterebbe senza immigrazione”, dal momento che il fondatore, Steve Job, era figlio di un immigrato siriano. Tutta Silicon Valley ha protestato immediatamente. Oltre il 60% delle imprese tecnologiche che hanno reso celebre la valle californiana ha tra i fondatori immigrati di prima o seconda generazione.
E subito è scoppiato il caos, con centinaia di persone bloccate negli aeroporti in attesa di essere rispedite indietro e proteste divampate in tutte le principali città USA, nell’imbarazzo da parte di una bella fetta di parlamentari repubblicani, sempre più a disagio a sostenere le ardite rivoluzioni di Trump. Per tutta risposta l’ostinato uomo solo contro il mondo ha risposto via twitter con un insulto all’Europa, affermando “gli USA hanno bisogno di leggi severe e subito. Guardate in Europa che cosa sta succedendo. Un caos orribile!”. Evidentemente non era stato informato che nelle cancellerie di tutti gli stati democratici nel frattempo ci si stava invece chiedendo “in USA che cosa sta succedendo”.
A quel punto l’azzardo, come un boomerang, gli si è rivoltato contro. Sono partite le dichiarazioni ostili al suo comportamento da parte di tutti i principali leader del mondo democratico. Perfino Theresa May, che solo 24 ore prima aveva intrecciato con lui una chiacchieratissima love story politica all’insegna del “che fantastica storia è la Brexit”, gli ha dato il benservito ricordandogli che un paese civile quelle cose non le fa. E, finalmente, una semplice giudice di Brooklyn lo ha fermato, proibendo la deportazione delle persone fermate e costringendo la Casa Bianca a correggere almeno in parte il provvedimento, eliminando le restrizioni per chi ha la carta verde.
Ma la ferita rimane, insieme alla sgradevole sensazione di assistere al ballo di un elefante nella cristalleria geopolitica mondiale, e pone tutti la classica domanda: quale sarà la prossima cavolata?
Trump ha avuto una prima dimostrazione che trasformare una serie di tweet in decisioni politiche in una democrazia richiede tatto ed equilibrio. Entrambe doti di cui madre natura con lui è stata avara.
L’America, ferita nei suoi valori fondativi di tolleranza ed apertura, ha mostrato di avere ancora gli anticorpi per fermare il virus dell’autoritarismo. Ma, onestamente, non credo che questa lezione basti a far rinsavire il pannocchia. Aspettiamoci altri penosi show.
Guardando brevemente alle implicazioni sui mercati finanziari, è evidente che le decisioni sulla sicurezza e sui diritti sono quelle meno considerate dai mercati. Non hanno certo un impatto paragonabile a quello dei provvedimenti fiscali o monetari. E’ difficile perciò misurare quanto gli investitori si spazientiranno per le performance trumpiane, che finora hanno completamente accantonato i provvedimenti pro-crescita per lasciare la totalità della scena alle liti geopolitiche ed alla chiusura xenofoba, che alla crescita globale, ma anche a quella americana, portano solo ostacoli.
Forse la pazienza delle borse non è ancora finita. Ma ho l’impressione che non pochi, che hanno comprato a piene e mani a novembre le azioni delle società USA, ora qualche perplessità comincino a nutrirla.
Anche perché venerdì scorso il dato preliminare di stima del PIL USA del 4° trimestre 2016 è stato abbastanza moscio e, se venisse confermato come definitivo, decreterebbe il 2016 come l’anno con la crescita più blanda (+1,6%) dopo il 2011.
La borsa sta scontando per il 2017 un aumento degli utili per le imprese dell’indice SP500 stimato dagli analisti in circa +14%. A ben vedere il rialzo post-elettorale ha già incorporato nell’indice una crescita analoga, in base alle rosee aspettative subito trasformatesi in attestazioni di fiducia e in decisioni di investimento. I mercati si sono molto sbilanciati, con un’apertura di credito enorme alla rivoluzione Trump, ipotizzando l’arrivo di un’accelerazione della crescita che nelle statistiche per ora non si vede e di cui non si vedono ancora nemmeno le premesse normative promesse da Trump. Questi è stato lestissimo ad applicare provvedimenti protezionistici ed autoritari, ma sta nicchiando alla grande sugli altri due pilastri qualificanti del suo sogno “Make America Great Again”: il corposo taglio alle tasse e il piano infrastrutture da 1.000 miliardi di dollari.
Qualche domanda sugli effetti reali della “rivoluzione Trump” è quasi ora di farsela.
Pierluigi Gerbino www.borsaprof.it